Si definiva “Vecchio Pazzo per la Pittura” e realizzò le sue opere migliori dopo i 70 anni. Ora, mentre draghi, divinità, poeti e lottatori prendono vita nelle mostre a lui dedicate, analizziamo le passioni che animavano il più iconico artista giapponese.
Se Katsushika Hokusai fosse morto quando fu colpito da un fulmine all’età di 50 anni nel 1810, sarebbe ricordato solo come un apprezzato esponente dell’ukiyo-e, l’arte giapponese del “mondo fluttuante”, ma difficilmente come la grande figura che conosciamo oggi.
La sua maturazione artistica fu eccezionale: solo dopo i 70 anni realizzò le sue opere più famose, tra cui le “Trentasei vedute del Monte Fuji” e “La grande onda di Kanagawa”, un’immagine che ha conquistato il mondo. “Fino a 70 anni”, scrisse come eco parodistico di Confucio, “nulla di ciò che ho disegnato era degno di nota.”
Era una dichiarazione audace, ma non del tutto vera. Hokusai aveva iniziato a produrre i suoi manga, popolari libri di stampe xilografiche, già nei suoi cinquant’anni. Questi volumi, in totale 15 (di cui gli ultimi tre postumi), spaziavano tra i più svariati soggetti: figure reali e immaginarie, fauna, flora, paesaggi e marine, draghi, poeti e divinità, in un insieme che sfida ogni narrazione convenzionale. Sfogliare i manga, sia nell’originale sia in copia, è un’esperienza che amplia la mente, un viaggio consigliato a tutti gli artisti in erba. Con la loro osservazione e creatività, i lavori di Hokusai sono stati paragonati a quelli di Rembrandt e Van Gogh, offrendo un affascinante panorama del mondo e della sua immaginazione.
Se i manga hanno reso noto il nome di Hokusai, sono state le “Trentasei vedute del Monte Fuji” (che in realtà contano 46 stampe) a consacrarne la fama. La passione di Hokusai per il Fuji, parte del suo anelito all’immortalità artistica, si radica nelle tradizioni buddiste e taoiste, che vedono nella montagna il segreto dell’eternità, come suggerisce uno dei significati del suo nome: “Fu-shi“, ovvero “non morte”. Ho avuto l’occasione di ammirare il Fuji l’anno scorso, dal finestrino del treno proiettile Shinkansen: il suo predominio nel paesaggio è immediato, emergendo tra boschi e città, dietro agli edifici e sopra le pianure – una fonte di ispirazione costante per la creatività inesauribile di Hokusai.
Nelle “Trentasei vedute”, il Fuji si mostra in vari modi, talvolta protagonista, altre volte semplice elemento di sfondo. Le prime cinque opere della serie sono stampate esclusivamente in tonalità di blu, unendo l’indaco tradizionale al blu di Prussia, pigmento chimico allora innovativo. Queste scelte cromatiche evocano differenti prospettive del monte all’alba, che si tratti di una vista dalla spiaggia, da un’isola vicina, o mentre imbarcazioni da passeggero e navi mercantili lasciano la baia di Edo.
Nella serie, Hokusai ha introdotto gradualmente il colore, con tonalità delicate di rosa e ombre più marcate, per catturare la luce del mondo all’alba. La stampa “Ejiri nella Provincia di Suruga” ritrae l’alba su un tratto isolato dell’autostrada Tōkaidō, con il Fuji delineato da una singola linea e, in primo piano, viaggiatori colti da una raffica di vento che fa volare cappelli e fogli.
Le prime edizioni della “Grande Onda”, o “Sotto l’onda al largo di Kanagawa”, si distinguono per la loro sottigliezza cromatica: sfumature di rosa e grigio nel cielo, un intenso blu di Prussia nelle pieghe del mare. Barche da pesca si dibattono tra le onde, mentre l’imponente massa d’acqua, con le sue estensioni simili a dita, minaccia di inglobare sia esse sia il piccolo Fuji in lontananza. La fama occidentale della Grande Onda deriva in gran parte dall’influenza che l’arte europea ebbe sulle prime fasi creative di Hokusai.
Nelle sue prime opere, Hokusai mostra tentativi un po’ impacciati di applicare la prospettiva matematica, appresa dalle stampe europee introdotte in Giappone dai mercanti olandesi. Ma, arrivando all’opera “La grande onda di Kanagawa”, la rappresentazione dello spazio profondo era diventata notevolmente più raffinata. Le rigide linee prospettiche europee si trasformano nelle morbide pendici del Monte Fuji. Per il resto, il suo stile era completamente diverso da qualsiasi cosa si producesse in Europa in quel periodo.
Sarebbe affascinante vedere una delle delicate stampe colorate di Hokusai accanto a “La zattera della Medusa” di Géricault, dipinto solo un decennio prima, dove un’onda simile sembra pronta a travolgere fragili figure umane. Il confronto, e la modernità straordinaria della stampa di Hokusai, erano chiaramente presenti nella mente dei pittori post-impressionisti che ne ammiravano il lavoro. Ancora oggi, nelle stampe di Hokusai, Utamaro e Hiroshige, si può percepire l’influenza nelle sale da pranzo di Monet a Giverny; anche Rodin e Van Gogh erano collezionisti appassionati.
Hokusai firmò le “Trentasei vedute” col nome Iitsu, chiarificando di essere il “precedente Hokusai”. In Giappone, come in Cina, era usuale per gli artisti cambiare nome durante la carriera, segnando diverse fasi della vita, o anche per rinnovare la propria immagine. Assunse il nome Hokusai, che significa “Studio del Nord”, alla fine dei suoi quarant’anni, quando iniziò la sua carriera indipendente, lasciando l’insegnamento.
Con la creazione del suo secondo grande tributo al Monte Fuji, i tre volumi di “Cento vedute del Monte Fuji” (che in realtà ne contano 102), adottò i nomi d’arte Gakyō rōjin, “Vecchio Pazzo per la Pittura”, e Manji, “Diecimila Cose” o “Tutto”. “Cento vedute” esprime una folle completezza, unendo l’inventiva e la curiosità dei manga alla tecnica squisita delle “Trentasei vedute”. Timothy Clark, curatore della mostra al British Museum, descrive quest’opera come “uno dei più grandi libri illustrati mai stampati”, e difficile è contraddirlo. I disegni, brillantemente concepiti, e le stampe, magnificamente realizzate, sono talmente fedeli alla linea di Hokusai da sembrare i disegni originali, piuttosto che copie incise e stampate.
È fondamentale ricordare che Hokusai era un artista squisitamente commerciale, che basava il suo sostentamento sulle numerose vendite di stampe a basso costo e sui molti libri illustrati che produsse durante la sua vita. Nonostante il successo artistico, sembra che fosse perpetuamente in bilico sull’orlo della bancarotta, principalmente a causa della sua incompetenza finanziaria. Dopo la morte della seconda moglie nel 1828, sua figlia, Katsushika Ōi, tornò a vivere con lui, fornendogli un supporto fondamentale. Ōi, anch’essa pittrice di talento, lavorava a stretto contatto con il padre nel loro studio angusto e disordinato.
Un’immagine del loro ambiente di vita è catturata in uno schizzo di Tsuyuki Kōshō, uno degli allievi di Hokusai. Il disegno ritrae il maestro in una stanza affittata, avvolto in una coperta, intento a dipingere su un foglio posato su un tatami. Ōi lo osserva attentamente, fumando una lunga pipa da tabacco. Sul disegno si legge che in un angolo dello studio si accumulavano rifiuti, resti di cibo e altri detriti. Su una parete pendeva un cartello che recitava: “Rifiutiamo decisamente di dipingere album o ventagli” – anche se si può supporre che, alla fine, accettassero lo stesso questi lavori.
Le poche opere rimaste di Ōi dimostrano il suo notevole talento artistico. Studi recenti suggeriscono il suo possibile contributo ai dipinti più tardivi del padre, dove si notano elementi del suo stile, come le dita allungate e le raffigurazioni di belle cortigiane, ispirate dalla vita nel quartiere Yoshiwara, come rivelato dal film d’animazione del 2015 “Miss Hokusai”.
Tra i suoi lavori più impressionanti c’è “Hua Tuo che opera sul braccio di Guan Yu”, tratto dal romanzo storico cinese “Il romanzo dei Tre Regni”. Questo dipinto si distingue per un’intensità violenta e un tocco macabro, assai diversi dalle opere del padre. Dal braccio del generale Guan Yu, che ha preso solo vino di riso come anestetico, zampilla sangue mentre egli prosegue in una partita a go. È uno dei pochi dipinti autentici di Ōi, la cui traccia si perde dopo la morte del padre nel 1849.
Confrontati con le sue stampe, i dipinti tardivi di Hokusai, esposti raramente – grandi rotoli su seta e carta – offrono una visione diversa. I temi sono spesso fantastici: un imponente drago si aggroviglia in una nuvola di pioggia sopra il Monte Fuji; un drago divino a sette teste si eleva nel cielo sopra il monaco Nichiren (di cui Hokusai era fervente seguace), seduto in vetta a una montagna e immerso nella lettura di un sutra.
Nelle loro riproduzioni in piccolo formato, le uniche che ho avuto modo di vedere, queste opere possono apparire quasi come illustrazioni commerciali, prive della profondità emotiva e atmosferica tipica delle stampe di Hokusai. Un esempio è una tigre sorridente che si muove nella neve, dipinta pochi mesi prima della morte dell’artista, che sembra quasi troppo graziosa e gioiosa. Questo rende ancora più importante visitare una mostra per ammirarle dal vivo. Come accade con le stampe di Hokusai, è solo attraverso uno sguardo attento e prolungato che si possono apprezzare le vere qualità di colore, superficie, dettaglio del pennello e meticolosità della composizione.
Nei suoi 80 anni, si racconta che Hokusai disegnasse ogni mattina un leone cinese, buttandolo poi fuori dalla finestra per scacciare la sfortuna. Molti di questi “disegni esorcistici” giornalieri sono sopravvissuti (probabilmente grazie a Ōi che li raccoglieva), risultando tra i suoi lavori più vivaci e incantevoli. L’unica vera sfortuna di Hokusai fu quella di morire dieci anni prima di raggiungere il secolo di vita, senza mai realizzare, almeno a suo avviso, quel grado di immortalità artistica che lui stesso prevedeva sarebbe arrivato a 110 anni, quando, come una volta scrisse, “Ogni punto, ogni linea avrebbe avuto vita propria.”